L’olio del paese Oggi si sente parlare spesso di dieta mediterranea, per indicare uno “stile” alimentare a base di prodotti naturali dalla fascia del Mediterraneo, che abbiano notevole valore nutrizionale. In realtà, però, “dieta mediterranea” è soltanto una sorta di convenzione diffusasi a partire dagli anni ‘50-’60 e sostenuta da studiosi americani i quali osservarono proprio le influenze benefiche sull’organismo umano di alimenti come appunto l’olio d’oliva. Fin dall’età antica l’olio è infatti noto per le sue qualità nutritive, oltre che per i suoi svariati usi, tra i quali si citano l’uso medico-terapeutico, quello per i profumi e le essenze oleose, l’uso come lubrificante, il valore liturigico e religioso (con riferimento anche alla mitologia greca). L’olivo e l’olio sembra fossero conosciuti già migliaia di anni fa. Basti pensare che impronte fossili di foglie d’olivo, risalenti a 37.000 anni fa, sono state trovate a Santorini. Una tradizione popolare religiosa fa addirittura risalire l’origine dell’olivo ad Adamo, il quale in punto di morte chiese a Dio un segno di pace e di continuità sacrale fra l’uomo e la divinità, e al momento della sepoltura gli furono messi in bocca alcuni semi d’olivo. Sebbene la tradizione cristiana sia contraria al culto degli alberi, ciò non si riscontra per l’olivo. Basti pensare, per esempio, agli affreschi nelle catacombe e al “monte degli ulivi”, nei pressi di Gerusalemme, che sarà uno dei punti di riferimento nella missione della vita e della morte del Redentore, ovvero in uno degli episodi fondamentali per la storia dell’umanità, per credenti e non credenti (Luca, 21, 37; 22, 39; 19, 37-38; Matteo, 24, 2-3; Marco, 14, 26). Nell’Antico Testamento (Genesi, VIII,11-12) si legge, inoltre, che una colomba portò a Noè un ramoscello di olivo come segnale della fine del Diluvio Universale, e si potrebbe supporre essere questo uno dei motivi per cui il ramoscello d’olivo è assunto da sempre a simbolo di pace. Ancora, secondo una certa tradizione, sembra si debba annoverare fra le tre piante, insieme con cedro e cipresso, con cui fu preparata la Croce di Cristo, nel qual caso assumerebbe ulteriore significato simbolico. Tuttavia secondo la maggior parte degli studiosi (botanici inclusi), l’olivicoltura vera e propria si è sviluppata a partire dal IV millennio a.C. in Siria e Palestina (Terra di Canaan) e da queste terre si è diffusa rapidamente in tutta la fascia mediterranea. E’ stato poi il dominio romano ad aver favorito e consolidato la presenza dell’olivo e la produzione dell’olio in tutte le regioni che si affacciano sul Mediterraneo, o almeno ovunque le condizioni climatiche e ambientali lo abbiano reso possibile. Non dimentichiamo, infatti, che anche oggi l’olivo, per le sue caratteristiche, è generalmente presente sul versante marittimo, esposto al sole, ad una quota non superiore ai 500-800 metri sul livello del mare. L’area colturale dell’olivo si estende all’incirca tra il 30° e il 45° parallelo Nord (sebbene, in età moderna, questa pianta sia presente anche nel Nord dell’India, in Argentina, Messico, Perù e Stati Uniti d’America). In Italia, la Liguria, in particolare, è uno dei territori di maggior diffusione dell’olivicoltura e della produzione dell’olio d’oliva e la prima vera diffusione avviene con la romanizzazione. Basti pensare alla grande quantità di anfore, appositamente utilizzate per contenere olio, trovate in relitti nel Mar Ligure, ma soprattutto ai resti di impianto produttivo per l’olio datati al I secolo a. C. e trovati nella villa romana scavata nell’insenatura del Varignano, a Portovenere. Tuttavia la presenza di olivi in Liguria si registra fin dalla preistoria, a ulteriore dimostrazione che non sono stati i monaci benedettini a insegnare ai Liguri l’olivicoltura, la produzione olearia, nè i terrazzamenti (non si dimentichi quanto è emerso dall’indagine archeologica sul Castellaro di Uscio riferibile all’età del Bronzo), come si legge in alcuni testi. La produzione dell’olio nella Riviera Ligure di Levante, per esempio, risale quanto meno all’età romana come attestano appunto i ritrovamenti presso la villa romana in località Varignano. E tale produzione ha continuato fino ai giorni nostri, con un gradissimo incremento produttivo, soprattutto in epoca bassomedievale e post-medievale. In particolare, l’area compresa tra Sestri Levante, Casarza Ligure e Moneglia ha determinate caratteristiche naturali (e morfologiche) per cui, a partire dal Cinque-Seicento fino all’inizio del Novecento, si registra una grande diffusione di tre tipologie principali di frantoi, detti in dialetto “suppressa”: - il mulino con frantoio idraulici, ovvero con due ruote esterne che sono mosse dalla forza dell’acqua di un torrente, incanalata in una “chiusa” o canale artificiale, e che azionano rispettivamente la macina per macinare le granaglie o le castagne e quella per la frangitura delle olive. - Il frantoio a sangue, vale a dire con la mola per frangere le olive azionata da forza animale. - Il “Bolacco” che corrisponde al lavatoio per la sansa, ovvero i resti di pelli e noccioli macinati che rimangono sui fiscoli o sugli sportini dopo la torchiatura e dopo che tutto l’olio è stato spremuto. Dalla sansa, rilavorata, si può infatti ottenere altro olio, anche se di minore qualità (era noto l’olio “lampante di sansa”, considerato non adatto al condimento, ma usato, come indica il nome stesso, per l’illuminazione). Di solito nel “bolacco” a un piano c’era il frantoio vero e proprio, con la mola azionata dalla ruota mossa dall’acqua, mentre all’altro piano si lavorava la sansa per ottenerne altro olio, sempre con l’azione di una seconda ruota esterna che dava il moto alla macina e al sistema di “lavaggio” della sansa. Moneglia, 15 giugno 2004 |