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IL LEUDO RIVANO
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I naviganti del Tigullio erano soliti utilizzare per
i loro viaggi il leudo, barca dalla vela latina che fino alla metà
del secolo scorso ha solcato il Tirreno spingendosi oltre
l'Arcipelago toscano, in Sardegna e fino alla Sicilia.
Il leudo è una barca tipicamente tigullina, della quale Riva Trigoso
- paese "dei cento padroni e delle cento barche"- è considerata la
terra madre, anche se non vi fu costruito un solo esemplare: i
padroni marittimi rivani si rivolgevano infatti ai
cantieri navali di Sestri Levante, Lavagna, Zoagli, Rapallo, Santa
Margherita e San Michele di Pagana dai quali, nell'Ottocento, li
acquistavano al prezzo di 2.000 lire.
Ho conosciuto questa meravigliosa barca a vela verso il 1940 quando,
per raggiungere la scuola di Riva, fiancheggiavo i cantieri: era
alato il leudo del "Lentu" che trasportava il vino elbano per
smerciarlo nella sua osteria affacciata sulla spiaggia; affacciata sulla spiaggia;
a Borgo Rena numerosi erano i leudotti, i rivanetti e i gozzi da
pesca.
Molti erano i leudi nell'angolo di Ponente e, di questi, solo
il "Nuovo Aiuto di Dio" e rimasto a farsi corteggiare dai turisti e
dagli ultimi naviganti sulla spiaggia della Baia delle Favole, a
Sestri Levante, in attesa di scendere in mare.
Del leudo, una barca sui generis, hanno scritto il camogliese Gio
Bono Ferrari, comandante di mare e scrittore, e il sammargheritese
Vittorio G. Rossi, cantore di storie marinare, che lo ha definito
"una barca dell'epoca romantica della marineria velica del Tigullio
e della Liguria, che portava i nomi di Santi, della Madonna, di
genitori, segno d'amore e di una viscerale fede".
Su quest'imbarcazione viaggiavano a vela intere famiglie, che
mettevano al sicuro i figli nei barili dove si salavano le acciughe,
oppure li legavano all'albero maestro per non farli cadere in mare.
A bordo dei leudi si distinsero provetti marinai e coraggiosi
commercianti, che acquistavano vini, formaggi e altri prodotti
pagandoli in "marenghi" e poi in lire.
Ferrari e Rossi hanno voluto celebrare questa barca dalla vela
latina con l'albero inclinato verso prora, che scivolava sull'onda
provocando quello sciacquio dolce e armonioso quando si alzava la
veletta di prora, la faceva impennare, affrontando il mare
impetuoso.
Hanno raccontato anche storie di vecchi marinai impregnati di
salsedine, rudi ma gentili, che affrontavano i venti con l'ardire di
vincere il mare al comando di una barca che navigava in compagnia
dei gabbiani, poco più lunga di 16 metri, elegante, conosciuta fuori
dalla Liguria come "tombolotto del mare", per la sua sicurezza di
navigazione.
Il leudo resterà nella memoria come un'imbarcazione che forgiò
coraggiosi capitani, eredi di altrettanti navigatori che avevano
affrontato la malafueras, il famigerato Capo Horn, e i mari
dell'Europa oltre le Colonne d'Ercole.
Nei secoli passati le spiagge del Tigullio, da Riva Trigoso a San
Michele di Pagana, erano un arsenale di bianchi velieri, di ogni
tipo e di ogni stazza, un unico cantiere brulicante di lavoro; in
mancanza di strade, i leudi erano la forza operante vivificante e
predominante, destinati al commercio, al trasporto della sabbia e
dell'ardesia verso Genova e le Riviere e del carbone dalle coste
francesi, ai traffici sui lidi dell'Elba, di Capraia e della
Sardegna.
Su essi si esportavano i damaschi di Lorsica, le sete e i
velluti di Zoagli, le reti di Santa Margherita e di Sestri Levante,
i tomboli di Portofino, l'ardesia della Fontanabuona, da scambiare
con vino e formaggi, oppure con fucili, fisarmoniche, suppellettili
provenienti dalla Francia.
A quel tempo il piatto del giorno era il bagnun di acciughe e
gallette, oppure i pesci pescati durante le soste forzate, quando
Eolo sonnecchiava e la barca navigava a suon di braccia; ma al
risvegliarsi dei venti, i naviganti affrontavano il mare impetuoso
con grande coraggio, a volte immolando la vita in naufragi o
incidenti.
Nel secolo scorso, le spiagge di Riva Trigoso e di tutto il Tigullio
erano affollate di barche, bianche vele al vento che il Sabato
Santo alzavano il tricolore sul pennone
in segno di ringraziamento per le grazie ricevute lungo le
perigliose navigazioni; la
sera, allo slegar delle campane, tutti si recavano in riva al mare
per immergere i
piedi e lavarsi la faccia.
Ogni famiglia di Riva Trigoso possedeva un leudo, che rappresentava
uno strumento di lavoro, ma che diventava quasi un simbolo della
Provvidenza: era
tradizione, infatti, che i "vinaccieri" di Ponente rientrassero
appositamente alle loro case per partecipare alla festa in onore
della Madonna del Soccorso, la seconda
domenica di ottobre; quelli di Riva celebravano invece la Madonna
dei Buon
Viaggio il 15 di agosto. Raggiungevano poi Trigoso, tutti insieme,
per pregare
all'altare della Madonna del Rosario.
Gli ultimi leudi furono costruiti negli anni trenta del novecento e,
da allora, cominciò un lento declino che li portò quasi a scomparire quando, con
l'avvento delle
navi a vapore, andarono scemando i commerci con le isole. L'ultimo,
costruito alla
metà del secolo scorso, fu il Nuovo Aiuto di Dio.
Attualmente, oltre ai numerosi esemplari realizzati dai modellisti e
a quelli immortalati sulle facciate delle case di Riva e di Sestri, nel Tigullio
rimangono soltanto quattro leudi, a ricordare la storia di una barca e dei suoi
coraggiosi marinai: il Felice
Manin, il Nuovo Aiuto di Dio, il Domenica Nina (in restauro ai
Cantieri Sangermani di
Lavagna) e il Ferdinando Padre, acquistato dal Comune di Lavagna,
che naviga nelle
acque del Tigullio. Un meraviglioso leudo si può ammirare
percorrendo il lungomare della Baia delle Favole dove, dopo il nobile Palazzo Balbi,
presso uno dei più tipici ristoranti in cui si può ancora assaporare
il vero bagnun
(il piatto dei naviganti
leudisti), un grande affresco murale rappresenta il leudo
Giovanna del padrone
Nicolotto Zolezzi. Questo, con la sua ciurma di mainolli sestrini,
si recava in Africa
nel tempo della pesca delle acciughe e delle sarde; in occasione di
uno degli ultimi
viaggi tornò a Sestri con un Crocifisso alto più di mezzo metro,
donato a Nicolotto Zolezzi da un pescatore algerino che conosceva la
sua devozione al Santo Cristo, venerato dai naviganti dei due mari.
A quasi cinquecento anni dal viaggio di Cristoforo Colombo, il leudo
Felice Manin
di padron Ghio "Cumbinemmu" di Rena, dopo la ristrutturazione e il
varo avvenuto il 3 luglio 1982, al comando di Luigi Cappellini e con otto
uomini d'equipaggio
il 21 ottobre 1984 è partito da Genova e, sulla rotta degli alisei,
è arrivato il
30 ottobre 1985 a San Salvador.
Un leudo rivano ha così cominciato una lunga serie di presenze nei
porti più prestigiosi del Nord America, conclusa con la parata del 9 ottobre a New
York; dopo
una sosta nel porto di Chicago, dal 1987 al 2000, il vecchio legno è
stato riportato
alla Spezia dove sono in corso le operazioni di restauro presso
l'Arsenale Militare.
Vi collaborano capitan Mosè Borderò, armatore del leudo Nuovo Aiuto
di Dio, e gli
studiosi del settore Mario Caffero e Lazzaro Ghio di Riva Trigoso.
Accanto ai leudi, solcavano le acque di Riva le pareggie, le
golette, i "barchi bestia"
e i leudotti, imbarcazioni di 13 metri che andavano alla pesca in
Africa costeggiando il litorale tirrenico o le coste occidentali della Corsica e
della Sardegna, per raggiungere, se il tempo lo consentiva, la Sicilia, la Tunisia e
l'Algeria.
Nel 1880-90 a Borgo Ponente se ne contavano ben ottanta, oltre a
venti guzzoni,
dieci sardiniere, otto paia di crocette e molte barche utilizzate
per la pesca alle acciughe sul litorale toscano e sulle coste francesi di Saint Raphael,
una campagna che
durava tutta l'estate. Riva e Borgo Rena erano popolate da duemila
abitanti,
Ponente da milleottocento, calati da Trigoso e da Ginestra, i
leudotti erano settanta
e i guzzoni venti, numerosi i rivanetti e i gozzi per la pesca
costiera.
Nel 1896 sorsero, sulla spiaggia tra Riva e Rena, i Cantieri Navali,
che i pescatori e
i leudisti non volevano perché temevano che fosse danneggiato
l'alaggio delle
barche, tanto che presero a sassate l'armatore Erasmo Piaggio e il
comandante
Lorenzo Gardella di Recco, che avrebbero poi portato tanto beneficio
al paese.
Quanta devozione avevano i marinai e i pescatori per i loro Santi
protettori: la
Madonna di Montenero di Livorno, Santa Rosalia che aveva conosciuto
chi, attraversato il Canale di Sicilia, faceva tappa nei porticcioli isolani
affacciati sulla costa
africana. Ferdinando Bregante, figlio del "Tillin" e padrone della
pareggia Madre Giulia, acquistata da "Muridin" Bregante di Riva, fino al 1950
trasportava a Sestri
ben 500 ettolitri di vino rosso da Castellammare del Golfo e, con la
goletta Buona
Madre, altrettanto vino da Santa Eufemia in Calabria, mentre i
"barchi bestia" dei
Piaggio "Cichetti" di Sestri e dei Lena "Merica" di Riva, che
attraccavano al porto
di Genova, portavano il rinomato vino di Pachino in Sicilia e i
dolci di Cipro e di
Grecia.
I leudotti rivani, con una ciurma di pescatori sui generis, alcuni
dei quali usavano
portare gli orecchini, partivano il primo maggio, dopo la
benedizione del parroco di Trigoso (fino al 1873), poi di quello di
Riva e di San Bartolomeo della Ginestra,
dopo aver ricevuto sulla spiaggia il commovente abbraccio dei
familiari. Partivano
per l'Africa: a Livorno acquistavano i barili per la salagione e,
attraverso il Canale
di Piombino, raggiungevano l'Elba e la Sardegna; navigavano verso
Carloforte per
caricare sale e per acquistare vettovaglie. Raggiunta la Cala di
Francia, Galitta e
Capo Ferro in Algeria, si disponevano alla pesca; dopo aver riempito
i barili di
pesce, iniziava il viaggio di ritorno. L'arrivo era avvertito dai
vecchi pescatori, vigili sentinelle sulla spiaggia; quando le bianche vele spuntavano da
Punta Baffe, si
radunava la popolazione
avvisata dal suono delle campane di San
Bartolomeo,
delle Rocche e di Trigoso, che festeggiava commossa chi aveva avuto
la fortuna di
rientrare sano e salvo.
Uno stesso tipo di pesca si praticava sulle
coste francesi, dove
i naviganti portavano anche le mogli, che spesso partorivano a bordo
i loro figli.
A quest'attività si aggiungeva la pesca a strascico sulla spiaggia
con la sciabiga e,
con l'abbinamento di due guzzoni o latini, quella tradizionale con
le "manate" e i
palamiti fatta con i rivanetti, equipaggiati di cinque pescatori.
Tony Bregante, in Cento padroni e cento barche, ricorda due
pescatori rivani che,
recatisi con i leudotti a pescare le sarde sulle coste nordafricane,
furono fatti prigionieri dai pirati. Nei primi anni dell'Ottocento Matteo ed
Emanuele Ghio, due
giovani mainolli rivani che viaggiavano a bordo di un leudotto,
furono catturati da
uno sciabecco corsaro e ridotti in catene. Dopo una penosa
traversata furono
trasferiti a Berberia, venduti sul mercato degli schiavi e condotti
a lavorare nelle
saline; essendo due possenti giovanotti, furono poi scelti per far
parte della guardia
del Sultano. Ma meditavano la fuga: di notte s'impadronirono di una
barca incustodita e affrontarono il Canale di Sicilia; la fortuna li assistette
e approdarono sulla
spiaggia di Sciacca. La fuga era riuscita, ma Riva Trigoso era
ancora lontana e i pericoli numerosi. Risalirono lentamente la costa tirrenica
approfittando della bonaccia
e nutrendosi di pesce, muscoli, patelle, zin e anche bassiggie. Dopo
tre mesi di
avventura, approdarono allo scoglio dell'Asseu, nell'angolo di Borgo
Rena.
Familiari e amici, che stentavano a riconoscerli per il loro aspetto
macilento, li
accolsero con comprensibile commozione, increduli di quell'odissea;
andarono tutti
insieme a pregare nella chiesa di Santa Sabina di Trigoso, ricevendo
la benedizione
all'altare della Madonna del Rosario.
Questa è la storia del leudo rivano, che resterà simbolo di una
terra di marinai, di
una storia reale, viva, semplice e generosa, limpida come l'acqua
del suo mare e
della sua gente.
Foto Bo |