Cucina e canti al tempo dei briganti
Introduzione
Molti sono i pregiudizi e i luoghi comuni che accompagnano la figura
del brigante e ne distorcono l’immagine per consegnarla ad un
immaginario collettivo non aderente alla realtà. Uno di essi è che
conducevano, tutto sommato, una vita allegra, godendo del frutto
delle loro rapine e gozzovigliando a tutto spiano.
La realtà, come balza evidente agli occhi di un osservatore appena
attento e non prevenuto, è tutt’altra: una vita grama, di stenti, di
privazioni, all’insegna dell’arrangiarsi. E dell’accontentarsi del
poco che si racimola. Altro che pranzi pantagruelici.
La felice intuizione di Giorgio Cretì fa giustizia di questa realtà. Sono
pochi frammenti che, anche dopo anni di studi e di ricerche, si
riescono a trovare intorno alle abitudini alimentari delle bande
brigantesche: qualche fugace accenno nel diario di don Josè Borges e
qualche passo dell’autobiografia di Carmine Crocco; qualche
notarella nei processi, un elenco nei biglietti di ricatto…
Pochi indizi che, però, ci indirizzano verso il mondo contadino e ci
aiutano a comprendere che, con le ovvie limitazioni della vita alla
macchia, l’alimentazione dei briganti era quella tipica del povero
mondo rurale che li esprimeva.
Pare utile allora il certosino lavoro di ricerca che Giorgio Cretì
ci offre attraverso queste pagine.
I briganti ci appaiono per quello che sono veramente: uomini normali
che anche nel furore della lotta vivono come tutti gli altri, se non
addirittura peggio.
Così
come ci intenerisce il generale Borges che ringrazia Iddio per la
fortuna di aver potuto bere un bicchiere di vino; così come ci fa
bonariamente sorridere Carmine Crocco, con i suoi disagi davanti ad
una mensa pomposamente imbandita in suo onore; così come ci legano
al mondo contadino la vicenda della madre di un brigante arrestata
nel tarantino perché portava al figlio una pignatta di fave e le
donne che andavano nei campi a raccogliere verdure selvatiche per
preparare una minestra da poveri ai loro uomini alla
E la riscoperta dei sapori della cucina povera diventa la riscoperta
dell’universo rurale: stride questo mondo con l’immagine bugiarda di
gozzoviglie pantagrueliche: favole, queste ultime, che sconfinano
nel grottesco se paragonate con la realtà grama di chi, nei periodi
di magra, mangia solamente le radici commestibili che trova nei
boschi, le ghiande, i funghi, i frutti selvatici.
Ma se anche fosse vero il contrario, se anche i briganti si fossero
abbandonati ai piaceri della tavola, qualcuno avrebbe il coraggio di
sostenere che non ne avevano il diritto? Si vuole forse negare a
questa umanità dolente il diritto alla normalità quotidiana? Penso
alle difficoltà della vita alla macchia quando Cretì sostiene che la
dieta brigantesca era sostanzialmente carnea; penso alla difficoltà
di accendere un fuoco possibile rivelatore della presenza della
banda in un luogo; penso a un frettoloso pasto in piedi o in sella
ad un cavallo; penso al rimpianto e alla nostalgia per un piatto
caldo davanti al fuoco della propria abitazione; penso all’ansia di
normalità che percorre come un brivido quegli uomini abbrutiti dalla
lotta mentre trangugiano un boccone di pecora mal cotta e senza
condimento. E capisco perché nei loro biglietti di ricatto i
briganti chiedano “maccaroni”, “salcicce” e “alchermisi”. Mi viene
in mente come, nel decennio francese e durante il regno dei Borbone,
ai fuorbanditi venisse concesso un salvacondotto per la notte di
Natale, perché potessero trascorrerla in famiglia. E come questo
elementare atto di umanità non sia stato nemmeno preso in
considerazione dal piemontese liberatore e portatore di civiltà…
Il
lavoro di Giorgio Cretì va nel senso della riscoperta di tale
perduta normalità: ci presenta due aspetti di ordinaria quotidianeità: il cibo e i canti. E giustamente non parla di “cibo e
canti dei briganti”, ma di cibo e canti “al tempo dei briganti. Ci
offre, insomma uno spaccato della vita del tempo e ci aiuta a
comprendere che i briganti sono parte di quel tempo e che in quel
tempo consumano la loro esistenza.
Cretì non ci offre l’immagine bugiarda di briganti goderecci e
gaudenti, ma ci ricorda che, in quanto uomini, avevano anch’essi il
sacrosanto diritto di cogliere i piccoli piaceri che una vita grama
come la loro poteva offrire. E attraverso una ricetta povera o un
canto spontaneo, ora di protesta, ora d’amore, ora di rabbia, ci
avvicina al mondo contadino dell’epoca meglio di tanti saggi dotti
ma asettici. Anche le ricette, anche i canti al tempo dei briganti sono “carte scoperte” che possono farci riflettere. Antonio, il protagonista del lungo racconto, è un eroe all’antica e come l’Ulisse omerico nel Mediterraneo, percorre in lungo ed in largo tutto il Salento; di giorno e di notte, con il buono ed il cattivo tempo, ed attraverso il suo viaggiare acquisisce sempre più conoscenza della vita. Viaggia da solo dall’inizio alla fine, come se fosse guidato dalla forza misteriosa che domina il mondo e gli uomini. Senza mai fermarsi, neanche di fronte alla perdita dell’oggetto del suo più grande sentimento.
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