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da "Itinerario della mia vita" del Dott. Sergio Stagnaro |
Pur avendo da tempo superato gli ottanta, era ancora un bell’uomo. L’ambiente, che lo ospitava, era in netto contrasto con la sua personalità: camere signorili, tappeti persiani, mobili antichi, specchi di raffinata eleganza, quadri di autore alle pareti ricche di stucchi; alti prelati apparivano, silenziosi e fugaci, nei lunghi corridoi illuminati a giorno. Nel 1917, dopo aver ormai terminato il liceo classico a pieni voti, Augusto partì per il fronte. In una disperata notte sul Tagliamento in lui maturò l’idea di farsi sacerdote, non più sergente di fanteria ma soldato di Dio, e dedicarsi ai poveri e bisognosi, naturalmente se avesse fatto ritorno a casa. E così avvenne. Terminati gli studi religiosi nel seminario di La Spezia, al giovane prete, eccellente predicatore stimato dal suo Vescovo, venne offerta la amministrazione di una nuova parrocchia a Migliarino, in una chiesa alla cui costruzione partecipò lo stesso neo-parroco. Inspiegabilmente per quanti lo conoscevano, Don Augusto rimase in quell’angolo di paradiso soltanto pochi mesi; dopo un breve colloquio con il Vescovo, fu trasferito in uno sperduto paese dell’Appennino spezzino, dove passò la sua vita, all’ombra di un campanile costantemente sul punto di cadere, "come foglia sull’albero d’autunno", rovinando sopra l’antica chiesa, cronicamente malata. Un giorno - quanti anni sono ormai passati! - chiesi a Don Augusto: "Don, a Migliarino c’era forse una donna?". Sorrise dolcemente e, senza parlare, a lungo scosse lentamente la testa, chiaramente in segno di compassione per i miei limitati orizzonti culturali e spirituali; mi sentii sprofondato in un malessere interminabile avendo sperimentato l’abissale distanza che da lui mi separava nella dimensione dell’Amore, "strano terremoto dell’anima", che "dischiude le porte dei mondi celesti, facendo pervenire di lassù il refrigerio del paradiso". Mi spiegò che per lui Amore era ciò che i greci chiamavano co-appartenenza, fusione, legame spirituale con il prossimo, via di accesso alla Verità. Trascorsero molti anni di preghiera, lavoro e studio quando anche per il buon parroco di montagna scoppiò la guerra partigiana, che lo coinvolse totalmente, suo malgrado. "In questo piccolo paese ho il dovere di aiutare tutti, in particolare i poveri, i bisognosi e i giovani, da qualunque parte stanno; io li ho battezzati, cresimati e sposati; sono tutti come figli per me", andava dicendo e alle parole, come sempre, fece seguire i fatti. Purtroppo per lui, su quei monti nacquero e crebbero in larga maggioranza futuri partigiani, cosicché anche quelli di passaggio potevano ricevere un poco di cibo caldo e riposare nella canonica, prima di riprendere il cammino, accompagnati dalla sua benedizione, che significava conforto e speranza, anche per chi non era stato graziato dal dono della fede. Una notte del 1943 i partigiani locali, dopo essersi rifocillati, abbracciato il loro parroco, partirono per una missione di guerra. Qualcuno, forse in tono "provocatorio" o forse per istinto, alzava il pugno chiuso; soltanto un ragazzetto diciottenne, che faceva la staffetta, abitualmente salutava Don Augusto baciandolo... per farsi coraggio oppure spinto da un impulso, ispirato dalla figura paterna del sacerdote, suo compaesano. Dopo circa un’ora tornarono, stanchi e visibilmente preoccupati, passando furtivamente attraverso l’orto dietro la canonica; in chiesa il parroco pregava. "Presto Don, i tedeschi ci inseguono... li abbiamo attirati in un’imboscata... dobbiamo lasciare le armi pesanti nel forno della cucina... appena possibile verremo a prenderle... al più presto...". E rapidamente si lasciarono inghiottire dalla notte, in un bosco di castagni. Quante volte ho pensato a quel povero prete, solo con il suo Dio, davanti a sospettosi soldati della Wehrmacht, presentatisi di lì a poco al portone della canonica, carichi di armi e desiderosi di vendetta; in quale particolare stato d’animo Don Augusto avrà osservato i tedeschi infuriati aggirarsi nelle antiche stanze in cerca di una prova decisiva, che, fortuna volle, non trovarono. Pochi mesi prima, pare per causa di una spiata, il parroco in malo modo e senza alcuna spiegazione, fu portato nella caserma dei carabinieri di Brugnato. Quella volta, però, gli era andata bene; non vi erano prove sicure a suo carico. Tuttavia, un caporale delle SS gli promise molto chiaramente, con un sorriso ricco di significato, che alla successiva occasione lo avrebbe fatto fucilare comunque. Fu quella una notte particolarmente agitata; allontanatisi i tedeschi dal sagrato, silenziosamente giunsero i partigiani, che evidentemente controllavano la situazione, passando come al solito dal retro della canonica. Presero le armi nascoste nel forno a legna della vecchia cucina, salutarono affettuosamente Don Augusto e scomparvero nel buio della notte. Ringraziando il buon Dio, il Parroco andò a dormire e, con qualche comprensibile difficoltà, si immerse in un sonno ristoratore. Al mattino presto, però, i tedeschi ritornarono e, senza troppe parole, spintonarono il prelato e andarono diritti in cucina; nel forno finalmente trovarono la prova a lungo cercata: "un" proiettile di fucile, chiaramente abbandonato da una spia. "Questa volta è la mia condanna a morte", pensò Don Augusto. Al contrario, la spia visse altre poche ore, mentre la divina Provvidenza salvò il prete. Accaddero eventi fortunati, culminati con l’arrivo degli Americani e la cessazione delle ostilità nella Garfagnana e nel territorio spezzino. "Di fronte a certi fatti neppure gli scienziati, per quanto geniali... aquile... riescono a trovare una plausibile spiegazione", dissi, in tono provocatorio, un caldo giorno d’estate a Don Augusto, venuto a pranzo da noi per fare, poi, un bagno nel mare, a quel tempo non inquinato. "L’umanità ha bisogno di aquile, ma soprattutto di galline. La trama della divina Provvidenza è sottile e sfugge alla ragione ed alla scienza", rispose prontamente il sacerdote, esempio fermo, sicuro, puro di una personalità spirituale. Negli anni quaranta, gli studi liceali non mi permettevano, se non molto raramente, di salire al paese di Don Augusto, dove il mondo sembrava aver raggiunto i limiti del suo dominio. Tuttavia, ero presente sul sagrato una domenica del 1948; sopra un palco abbellito da bandiere rosse con relativi falce-e-martello, allora ancora di moda, salì un oratore, candidato a Montecitorio, da poco venuto fuori -Deus ex machina- da un denso polverone sollevato da una auto primordiale. Senza aver prima raccolto prudenti ed utili informazioni, il compagno stalinista incautamente iniziò a ruota libera il solito comizio: "Compagni, tra pochi giorni la scheda elettorale, frutto della lotta partigiana, vi offrirà la possibilità di fare dell’Italia, liberata dalla dittatura fascista-capitalista-borghese-clericale, un paese democratico e comunista senza più preti, servi dei fascisti e co-responsabili di tanti crimini". Innanzi tempo, il comizio terminò: Don Augusto, che nel suo studio ascoltava, borbottando, l’appello disinteressato del compagno-oratore, furente come un toro, uscì dal portone della canonica, apertosi improvvisamente e rumorosamente e, attraversati con lunghi passi i pochi metri che lo separavano dal palco, si accinse a caricare con la sua notevole stazza il malcapitato, nel frattempo impallidito come un cadavere. Con il dovuto rispetto ma con scarso successo, parrocchiani ed ex partigiani si adoperavano per frenare l’irruente procedere dello scatenato sacerdote. Sicuramente ne sarebbe seguito un impari incontro pugilistico, a causa della differenza di peso dei due contendenti se l’ex capo partigiano, uomo di grande saggezza, abbracciato fraternamente il prete come tante volte in passato, non gli avesse sussurrato nell’orecchio poche parole di stima e gratitudine. Riacquistata improvvisamente la nota serenità, il parroco se ne stava andando verso la chiesa, intenzionato a chiedere perdono al buon Dio, quando dal sagrato si alzò un fragoroso e caloroso applauso al suo indirizzo. Naturalmente l’oratore, sempre pallido, lasciò il paese tra la totale indifferenza dei presenti. Molti anni dopo, in un giorno di festa, mi recai a visitare Don Augusto che incontrai nel suo studio; il pavimento ottocentesco di legno scricchiolava sotto il peso dei miei cauti ma non certo leggiadri passi, quasi in un lamento. Il parroco era seduto sopra una instabile poltrona, un tempo di noce, ora rattoppata alla meglio, dietro una tarlata scrivania, in mezzo a numerosi vecchi volumi di teologia e sacre scritture, disordinatamente ammucchiati su polverosi scaffali. Indossava la solita, forse unica, enorme tonaca, il cui colore, una volta nero-seppia, era diventato ormai fumo-di-Londra, reso meno indecoroso dalla sintonia perfetta con l’ambiente circostante. Il compito principale di quell’abito, dalla identica cagionevole salute del campanile e della chiesa, sembrava essere quello di nascondere l’aspetto clownesco di smisurati scarponi, calzati tutto l’anno, estate compresa. "Adesso dedico la maggior parte delle mie giornate a risolvere tanti problemi pratici...", mi disse il Don a modo di giustificazione; guardò improvvisamente l’orologio da tasca, si alzò rapidamente dalla precaria poltrona,e mi invitò a seguirlo frettolosamente fino al portone della canonica. Sul sagrato, nei pressi della fermata della corriera, un ragazzetto relativamente ben vestito e accuratamente pettinato, attendeva il parroco per il consueto saluto e gli ultimi consigli; ai suoi piedi vidi una vecchia valigia, piuttosto male in arnese, alla cui incerta chiusura provvedeva rozzamente un grosso spago, più volte annodato. Mi fermai all’ombra del grande albero secolare di fronte alla chiesa. Di lì a poco la corriera partì. Don Augusto, diritto come una quercia, faceva con una mano lenti cenni di saluto, accompagnati da un sorriso appena abbozzato, finché la corriera scomparve dietro una curva lontana. "E’ un ragazzo timorato di Dio e intelligente... come i suoi poveri genitori... grazie al Signore mi posso permettere... di sopportare le poche spese del seminario", mi disse mentre, con le grandi mani, stiracchiava la tonaca malandata, cercando invano di nascondere un troppo evidente disagio. Pensavo a questi episodi della vita di Don Augusto, allorché, proveniente dalla scala della casa di riposo, un vociare andava diventando via via più intenso e distinto; preceduti da un giovane prete, fresco di seminario con quel colletto bianco sopra un abito nero irreprensibile, stavano giungendo numerosi ex-parrocchiani; portavano fiori variopinti, in parte raccolti al paese per via della carta che li proteggeva; con amorevole cura li deponevano intorno al defunto e, accarezzata la sua tonaca, per una volta color nero-seppia, si facevano lentamente il segno della croce fissando il volto famigliare; molte le guance solcate da lacrime. Poco prima dell’inizio della S. Messa, giunse un anziano signore, dal volto intelligente e fiero; i presenti rispettosamente lo lasciarono passare, tirandosi da parte e salutandolo; giunto ai piedi del vecchio amico, senza mostrare alcuna emozione, prima lo fissò in volto, poi, piegato leggermente il capo, si irrigidì in un attenti militare, mentre la mano destra istintivamente si chiuse, senza tuttavia alzarsi, come una volta, in segno di saluto. Poco dopo mi si avvicinò, sempre in silenzio, mi strinse la mano e si allontanò. Alla presenza del Vescovo di La Spezia, la funzione funebre, in onore di mio zio, Don Augusto, fu celebrata dal giovane prete, futuro parroco del suo paese appenninico. La sua tomba si trova nel cimitero di Trigoso, suo paese natale.
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