IPPO RANCH (Villa Manierta)Diamo volentieri questo spazio all' Ippo Ranch, perchè anche questa è storia del nostro paese.
A CAVALLO CON LA MENTE
LA STORIA DELLA MIA FAMIGLIA
Io, naturalmente, non ho vissuto quei momenti, ma vi posso raccontare qualche esperienza vissuta da mio padre, dal quale ho sempre voluto sapere il più possibile riguardo alla sua vita. La famiglia di mio padre era una famiglia di commercianti ambulanti, che usavano spostarsi di paese in paese, prendendo in affitto una casa e cercando di vendere la merce del momento. Nicolina Sesta, mia nonna, che si trovava in quel periodo a Cinisi, partorì mio padre, il primo dei suoi tre figli, seguito poi da Vincenzo e Carmela. I miei antenati commerciavano, e si spostavano di paese in paese con carrozze e calessi trainati da bellissimi purosangue. A quel tempo mio padre doveva già dimostrare di essere furbo per far fronte alla miseria di quel periodo: si alzava al mattino presto e si recava ai campi militari americani, e con il suo sorriso e la sua simpatia veniva preso in braccio da quei grossi uomini che gli riempivano lo zaino di cioccolata, caramelle, scatolame e gomme americane. Appena lo rimettevano a terra, scappava di corsa dalla mamma e le dava tutto ciò che aveva. Mi raccontava che durante i bombardamenti scappavano sulle montagne e si rifugiavano nelle grotte assieme ad altra gente disperata. Mentre cresceva, si dava da fare a cercare ogni tipo di lavoro: dal guardiano delle olive, al pastore delle mucche, dal raccoglitore di limoni, al cestinatore di nespole, nei magazzini di Trabia, il suo paese. In quegli anni ebbe la fortuna di frequentare uno zio “mito”, molto particolare, fratello di Nicolina. Questo zio si chiamava Salvatore, detto Turiddo. Una persona speciale, che usava chiamare Ippo mio padre, nome che restò nella sua mente e che usò poi per il ranch. Era uno zio veramente unico, pieno di amore per la sua famiglia e per il prossimo. Purtroppo, sfortunatamente, morì all’età di 22 anni in un incidente stradale con la moto: fu una grande perdita per mio padre. Mio padre era di salute cagionevole, era gracile e magro, ebbe problemi anche di pleurite e dovette ricoverarsi in ospedale per sei mesi. Mia nonna per questioni di lavoro dovette mettere in collegio i tre figli, due in un paese vicino e Carmela a Trabia. Penso che quello del collegio sia stato il periodo più duro della sua vita: un regime simile a quello militare, gestito da suore decisamente “ruvide”. Quei giorni scorrevano lentamente fra sveglie alle 5, marce, lavoro e studio. Mio padre aveva un carattere forte e riusciva ad adattarsi a tutto, mentre suo fratello Vincenzo entrava spesso in crisi e subiva frequentemente le angherie delle suore. Mio padre, comunque, cercava di vedere sempre il lato positivo delle cose, cercava di imparare il più possibile dalla scuola di botanica, che si svolgeva nel collegio, e dal lavoro nei campi. All’età di 18 anni, ebbe una proposta da parte di un altro zio ‘guida’, Sestanicola, sempre fratello della madre: andare con lui a commerciare nelle grandi città, fare fiere e mercati, andare, insomma, in giro per tutta l’Italia. Fu una grande esperienza di vita. Proprio in quella occasione ebbe il contatto diretto con il commercio e con la gente di ogni luogo e tradizione. Passarono anche da Sestri Levante, paese che gli rimase nel cuore e dove abitavano già altri parenti. Quando tornò in Sicilia, conobbe una ragazza semplice, che apparteneva ad una famiglia del suo paese e che divenne poi mia madre: Antonina Vallelunga, detta Lina. Il fidanzamento proseguì bene fino al momento in cui i genitori di lei si opposero per futili motivi. L’amore era tanto forte da non poter rinunciare a viverlo, così scapparono insieme, fecero la famosa fuga d’amore (fuitina). Andarono ad abitare in un paese nell’entroterra della Sicilia, Agira, in provincia di Enna, dove mio padre aveva trovato lavoro grazie all’aiuto del compagno di mia nonna, una persona distinta e di cuore, Dino Gattuccio, divenuto compagno di sua madre, dopo la separazione tra mia nonna e mio nonno Giuseppe Ponziano, boscaiolo e produttore di carbone. Mio padre fece in quel periodo il bigliettaio e l’autista nelle corriere di linea (la SAIS). Ebbero lì il primo figlio, mio fratello Giuseppe, detto Pippo. A quel tempo, alla mia famiglia non mancava niente, il lavoro era sicuro, la gente di quel paese li aveva aiutati…ma c’era un’inquietudine in mio padre che lo portava a pensare a nuovi orizzonti. Nella sua mente affiorava sempre quel bel paese in Liguria: Sestri Levante. Questo pensiero diveniva sempre più forte, fino a quando decise, con l’aiuto dei parenti che già vivevano sul posto, di trovare sistemazione e lavoro a Sestri Levante. Furono tempi duri: gli proponevano case bruttissime, addirittura magazzini, ma lui cercava sempre la soluzione più positiva per la sua famiglia, aiutato dal suo sesto senso che non lo abbandonava mai. Riuscì a trovare lavoro sempre nelle corriere. Lavorava nella ditta Spagnoli che era un’azienda privata e molto rigida. Ogni giorno aveva problemi sul lavoro, si scontrava con la rigidità delle persone, che non avevano abbastanza rispetto per gli individui. Nel 1968 nasco io, un bambino gracile, frequentemente ammalato; vivevamo in un appartamento in viale Dante a Sestri. Mio padre si è sempre preoccupato della salute dei suoi figli, ma io ero il più cagionevole e poi non avevo appetito. In quel periodo, avendo esperienza di commercio, cominciò a frequentare qualche mercato rionale e fiere che allora erano abbastanza avvicinabili. E così, provvisto di licenza, iniziò a vendere. Cercando sempre un posticino che non disturbasse nessuno, portava la merce che gli capitava, grazie agli amici conosciuti alle fiere. Non si fissava mai su un unico prodotto, infatti, io, da piccolo, ho visto di tutto: dalle sedie sdraio alle poltrone, dai puff ai cuscini, fino alle stoffe, articolo fondamentale per il futuro. Il commercio cominciava ad entrargli nel sangue: ci credeva ogni giorno di più e respirava la libertà di espressione! Mentre faceva ancora il bigliettaio nella ditta Spagnoli, riusciva a studiare tra un biglietto e l’altro, infatti si era iscritto ad una scuola per corrispondenza di elettrotecnica (Radio Elettra) e, aggiustando gratis le radio degli amici, riuscì a prendere il diploma, La sua mente, però, non trovava ancora la giusta via e dimensione di vita. La sua passione era la campagna ed i famosi cavalli, che fino ad allora non si erano ancora manifestati, se non da bambino con storie di vecchi pastori. Nel 1972, a causa del mio precario stato di salute, mi portò da diversi specialisti, ma tutti dicevano che non avevo niente e mi davano una semplice cura ricostituente. Un bel giorno di primavera mio padre mi venne a svegliare e mi disse: “ Andiamo tutti in campagna, ho trovato una vecchia villa genovese nella località Mandrella, di proprietà Zolezzi”. Pagava allora 40 mila lire al mese, ma il problema principale era la strada da percorrere: più di mille gradini! Ma, credetemi, lì ho trascorso una bellissima infanzia…ho conosciuto la natura, i cani, le oche, le galline, i pulcini, i conigli… Era fantastico e si faceva sempre festa con poco. Io stavo meglio, e andavo a trovare i vicini contadini: uno era Baciccia. Io lo seguivo passo passo, come un cagnolino, e studiavo ogni suo movimento, mentre raccoglieva l’erba per la mucca, la mungeva, o quando si metteva il giornale sui piedi per il freddo. Ed io copiavo tutto! Di sera avevamo l’abitudine di radunarci intorno al camino e raccontarci storie antiche mentre mangiavamo le caldarroste. L’altra contadina era la Ines, persona che andavo a trovare spesso e giocavo con i suoi nipoti: Walter e Donatella. Mio padre, quando arrivò a Sestri Levante, ebbe la fortuna di incontrare una grande persona di nome Lella. Io ricordo solo questo nome e l’associo ad una donna, amica e madre. Costei ha dato una mano a tante persone ed a tante famiglie, compresa la mia, nei periodi più duri e difficili. Era una donna semplice, di cuore, piena d’amore per il prossimo. Io, sebbene fossi solo un bimbo di cinque anni, la ricordo benissimo, con la sua bicicletta ed i suoi cestini di fiori che andava a vendere… Però non vendeva solo fiori, ma affetto e amore per tutti. Fu proprio lei a trovare il lavoro fisso a mio padre nella ditta delle corriere e a dargli parecchi consigli su come fosse meglio muoversi nel paese. I mercati andavano sempre meglio e mio padre, comunque, non mollava mai. Un giorno, ricordo che venne uno zio da parte di mia madre a prendermi e per caso mi fece fare un giro per Sestri. Improvvisamente mi chiese sorprendendomi: “Ti va di andare a vedere i cavalli?”. Avevo cinque anni e rimasi bloccato lì, meravigliato, ma poco dopo risposi: “Sì, sì, sì”. Andammo al maneggio sestrese “Lo Sperone”, in via Ragone. Ero felice e fissai, guardando attentamente, la gente che montava a cavallo e saltava gli ostacoli. Dopo circa due ore mio zio mi disse che era tardi, e si doveva rientrare. Io ubbidii subito, ma dentro di me mi dicevo: “Io, qua ci ritorno”. E fu così. Quando rientrai a casa parlai a squarciagola per ore ed ore a mio padre solo di cavalli: “Ho visto i cavalli!” Sembravo un registratore. Mio padre mi chiese dove, ed io risposi: “A Sestri, non ricordo il nome, ma ricordo la strada per arrivarci, ci andiamo pa’?”. Per farla breve, da quella volta mio padre e mio fratello si iscrissero alla scuola di monta inglese e salto ostacoli. Non solo, poco dopo comprarono due cavalli di nome Metallo e Maya. Io mi dovevo accontentare di montare un po’ dopo ogni allenamento o concorso, ma incominciavo già a battere la sella a tempo, e alla sera ripassavo il tutto sulle poltrone di casa, usando come redini e staffe le mie bretelle. Proprio allora cominciò a crescere la grande, grande passione che coinvolse la mia famiglia.
Ricordo un altro episodio capitato quando avevo sempre cinque anni: mi trovavo nella piazzetta del mercato, di pomeriggio, a giocare a palla con altri bambini, ma erano più grandi e pensai che il pallone non facesse per me. Durante il gioco, passò un calesse con un cavallo scuro, forse baio (marrone), guidato da un vecchio con un berretto. Io mi bloccai e rimasi come incantato. Probabilmente i miei compagni di gioco mi fecero pure goal, ma io, superato l’incanto, andai verso il vecchio fissandolo, anche lui mi fissò e mi chiese se volevo salire con lui. Non risposi, andai e basta. Mi fece fare tutto il giro di Sestri Levante e poi mi domandò dove fosse mia madre e mi lasciò proprio davanti al negozio di frutta e verdura di mia madre. Quell’uomo si comportò onestamente e con me fu gentile, anche se venni a sapere, successivamente, che molti lo consideravano burbero. Io ricordo ancora il suo nome: lo chiamavano Cefalo. Mia madre non sapeva se sgridarmi o no: ormai era andata, il giro l’avevo già fatto. In seguito mio padre portò via i cavalli dal maneggio, cercava un luogo dove vi fosse la possibilità di avere una più ampia libertà di azione, ma non era facile, poiché gli unici luoghi erano solo maneggi. Intanto continuava a cercare un posto privato che potesse prendere in affitto. Ascoltando voci di persone che frequentavano i cavalli, venne a sapere di un certo Beppino Bozzano, ex partigiano, appassionato di cavalli da calesse, i famosi Trotter. Costui aveva un solo cavallo di nome Gitano, ma aveva tanta terra a disposizione e stalle per almeno 5 cavalli. Io ricordo Beppino come un mito, un grande uomo di nome e di fatto: era alto circa due metri, aveva sempre il viso rosso, forse per il vino che amava molto, insomma, a me sembrava John Wayne. Si dimostrò un amico di cuore, capì il problema di mio padre e diede alloggio ai cavalli e non solo…In seguito fece un campo per i cavalli sacrificando parte della sua vigna, dove ora si trova il Garden. Fu proprio lì che mio padre cominciò ad esprimersi liberamente, creando anche capi di abbigliamento originali, cappelli strani e mantelli. Cercava sempre di esprimere una filosofia di vita ed un abbigliamento che lo soddisfacesse. Fu proprio in quel luogo che Beppino Bozzano cominciò a parlargli dell’America, dei cowboy, degli stivaletti a punta, del foulard al collo e del famoso cappello da cowboy. Beppino, infatti, era stato in America ed aveva anche dei parenti chi vivevano là. Stavolta fu mio padre a “bloccarsi”, ed a chiedere sempre più notizie sui cowboy e sulle loro tradizioni. Fu proprio la vita
country e western a colpirlo e ad affascinarlo. A sei anni mi comprò il primo pony, di nome Rais, e me lo vendette proprio Beppino, con un contratto che usavano allora i “cavallari”: il patto delle mani. La sua, però, ne faceva dieci delle mie: mi sentivo già un uomo, e lui rideva da morire… Con quel pony imparai ogni cosa: feci passeggiate e gare con la mia prima sella americana col famoso “ pomo”. Mi sentivo un piccolo cowboy. In quel periodo si facevano raduni con i vecchi ‘cavallari’ e si parlava solo di cavalli: ero nel mio! Riuscivo ad andare a cavallo, a scuola, in palestra (aikido) e studiavo pianoforte con mio fratello. Mio padre, anche se a malincuore, decise di andare via da Beppino per trovarsi un posto dove attuare il suo sogno western: un ranch tutto suo. Per Beppino e per tutti noi fu duro lasciarsi, perché si era instaurata una forte amicizia. Beppino morì dopo qualche anno, nel 1980, e lo accompagnarono al cimitero con tutti i cavalli della zona e tutti a cavallo. Io ero con il mio pony in prima fila, vicino a Gitano, il cavallo di Beppino che faceva l’ultimo viaggio con il suo amato amico. Così, giorno dopo giorno, quel pezzo di terra situata in via Villa Manierta, con il sacrificio di tutta la famiglia che lavorava duramente, attraverso gioie e dolori, finalmente si trasformò in un caratteristico ed originale ranch, denominato Ippo Ranch, fondato nel 1979 da Filippo Ponziano, detto Buffalo Bill. Da quel momento cominciò tutta la nostra piccola epopea western con raduni e rodei, ritrovando e facendo rivivere le vecchie tradizioni western dei cowboy e degli Indiani d’America.
IL GRANDE ROGO DEL 6 SETTEMBRE 2004UN ‘ORA DI INFERNOdi Davide Ponziano
Prendo la macchina e mi precipito per andare sul luogo e nel contempo sento le sirene dei pompieri che si dirigevano sul posto dell’incendio. Sono nelle vicinanze, ma purtroppo resto bloccato nel traffico con la macchina e a quel punto decido di parcheggiarla vicino alla stazione ferroviaria, e mi dirigo correndo verso la salita di Villa Manierta. Incrocio un’autopompa dei pompieri che imboccava la salita, poi tutto ad un tratto si ferma e fa retromarcia. Subito mi avvio dal conducente : “Ma cosa fate non salite?” Lui risponde: “Non ci passiamo”. Io allora gli dico: “Ma come?! Ci passano i camion del fieno e sono grossi quanto questo, se non di più”. Niente da fare. Tornarono indietro e non riuscii a convincerli. Proseguì così la mia corsa verso il Ranch, dove mia madre si trovava poco prima, ma che, dopo la mia telefonata, fatta da Sestri per informarla dell’incendio in corso, si era già allontanata per dare aiuto a mio fratello che, con mezzi di fortuna, si stava prodigando allo spegnimento. Appena giunto al Ranch mi trovo solo; là infatti era tutto tranquillo. Pensavo già da prima di prendere un grosso estintore e di recarmi a casa, distante dal Ranch circa 300 metri in salita. Il Ranch era intatto, ma la casa di mia madre era minacciata, il fumo ci avvolgeva. Si sentivano scoppi ed urli di persone. Sembrava una guerra, il fuoco avanzava ed il vento stendeva fumo a mulinello in tutta la vallata. Non si respirava. Ero nel terrore, ma vedendo comunque i miei familiari salvi, vicino a me, pensavo solo ad una cosa: dobbiamo salvare la vita. Tirai per un braccio mia madre e mio fratello dicendogli: “pensiamo alla vita… scappiamo via da qua!”. Dovetti gridare con rabbia e determinazione. Così ci recammo velocemente nella casa sottostante, di proprietà dei vicini Ferrando, ma, credetemi, il fumo ormai molto denso ci seguiva e ci avvolgeva . C’era gente che si rifugiava nel garage, ma secondo me non era una buona idea, non mi andava di fare la fine del topo. Andammo con mia madre e mio fratello sul terrazzo della casa, lì almeno c’era una migliore respirazione in base a come girava il vento. Nel contempo nell’aria si sentivano scoppi di bombole ed automobili . Ad un tratto nel caos mi squillò il cellulare ed ebbi il tempo di rispondere. Erano i miei allievi che erano arrivati al Ranch coma facevano di solito, e mi dicevano: “Brucia dal Ranch cosa dobbiamo fare?”. Consigliai loro ad alta voce di bagnare e che ci saremmo sentiti dopo . Passarono circa dieci minuti e mi richiamarono dicendomi : “Qua brucia tutto! Cosa facciamo dei cavalli ?” Capii la gravità della cosa e risposi subito “liberateli, mollateli! Loro sanno cosa fare”. E così fu . Nel frattempo volevo provare a scendere per dare una mano, ma quando ci provai il fumo mi avvolse e mi fermai, come se qualcuno dall’alto mi dicesse : “Fermati! Dove vai? Torna indietro!”. Era come se una mano mi tirasse alla cintura! E così feci. Tornai insieme a mia madre e a mio fratello, dopo due tentativi falliti per andare al Ranch . Tornai dove ero prima, e il fuoco per fortuna da casa si stava fermando: il vento l’aveva diretto in altre direzioni . Mentre salgo, incontro il figlio di Pietro Ferrando che mi dice : “Mio padre! Non trovo mio padre!” Io gli chiesi: “Dove era?” Mi rispose: “Lì sotto, nel terreno”. Era proprio dove c’era un turbine di fumo. Io a malincuore gli dissi che cinque minuti prima avevo udito una voce dire “Oooh!! Oooh!!” Era come se venisse dall’oltretomba, ma speravo di essermi sbagliato . Comunque andare a salvarlo voleva dire morire insieme a lui . Dopo poco provai nuovamente a scendere al Ranch, e questa volta ci riuscii. Sapevo che avrei trovato molte cose bruciate, ma speravo che qualcosa si fosse salvato. L’ultima scena l’ho vista in diretta: il “Saloon” sciogliersi in 15 minuti davanti ai miei soli occhi. Una scena terribile, che non potrò mai dimenticare! Mentre guardavo quelle fiamme enormi, nella mia mente vagavano tutti i 25 anni di storia e tutta la fatica di mio padre. Non si salvò niente. Io in quei 15 minuti urlai di dolore e di rabbia. Piansi amaramente fissando lo sguardo dentro le fiamme che ormai divoravano il tipico “Saloon”, impotente di fronte a tanta devastazione. Dopo essermi calmato mi affioravano alla mente i pensieri orientali di vita che studiavo da tempo, e che mi stavano arricchendo la mente, per creare un nuovo metodo per andare a cavallo prendendo con filosofia la vita. Con questo mi tranquillizzai internamente. Fu come se la mia mente si fosse bloccata solo all’incendio come avvenimento, e come se non potessi portarla al passato ma pensare al presente solo al presente, ma dicendomi guarda avanti e vivi il presente. Così né ideai in seguito una mia frase “Siediti un istante, ma guarda avanti!!” Comunque fu proprio un’ ORA DI INFERNO.
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Ogni giorno penso che ognuno di noi Penso che la natura e gli animali Penso che ad ogni mente sia predestinato, Penso che ogni mente possa trarre Penso che ripartire da zero sia Penso che la vita sia come un fiume A volte la corrente è calma e a volte Pensa e credi in tè stesso, 1,3, 2007 -DAVIDE PONZIAMO |
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