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Da ü
ziü Luigi
di
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Non è l’insegna di un’antica bottiglieria, una taverna di quelle con
la frasca di pino oppure di una trattoria dove si mangia alla
paesana. É solo la scritta un po’ spiritosa, appesa ad un albero
all’ingresso un orto molto particolare, da Luigi Dighèro nato a Riva
Trigoso nel 1915.
Il quale sito poi è una specie di giardino delle Esperidi dove si
alleva con grande cura non solo il pomo d’oro, l’arancio, ma anche
le albicocche, le susine, i fichi e ogn’altro bendidio. La sua
ubicazione non è posta in riva all’Oceano ma sopra uno scoglio dal
quale, in silenzio eremitico, si domina il mare fin quando finisce
la baia ed anche oltre, fino all’orizzonte. Le fanciulle Esperidi,
però, non abitano qui, vivono ancora da qualche parte ai piedi del
monte Atlante. Qui si può incontrare soltanto colui che il giardino
l’ha ricavato da una crosta di monte inaccessibile prima del suo
arrivo, da un uomo modo suo libero, tuttavia non misantropo, ma
gioviale con chi va a fargli visita da amico. Luigi ha l’ordine
nella massima considerazione e così il rispetto della natura e per
questo
il sei settembre del 2004 bruciò il bosco di pini tutt’intorno, dove
son ancora ben visibili i segni, ma non qui.
Siamo andati a trovarlo e siamo riusciti a farci raccontare una
parte della sua storia.
A quando risale la
creazione di questo giardino delle meraviglie?
Del Settantatre
ero ancora in cantiere, poi mi sono licenziato. Allora avevo
cinquantasette anni… M’han detto se voglio fare un po’ di
consulenza, perché io ero montatore esterno: turbine, compressori…
quelle cose lì. Eh, ma sì, lo faccio, però mi date il terreno sopra
il capannone di Montecatini. M‘han fatto un contratto vitalizio.
Finché campo, questo posto non me lo toglie nessuno. Qua era bosco
quasi inaccessibile.
Ma come hai fatto
a pensare di venire quassù?
Ti spiego. I miei avevano un terreno
in Valle Lago, di là [oltre il crinale]. Era un oliveto ed io, sa,
quando mio padre aveva ottantatre anni e non ce la faceva più… io
dovevo andare… e c’era solo olio e un po’ di robe così. Ci mettevano
patate, cavoli, verdure… io ho messo su dei conigli. Ho detto: beh,
ci metto i conigli e intanto passo il tempo. Però ero sempre a
lavorare. Era fatica raccogliere le ulive e tutto ed in casa l’olio
buono non ci piaceva e volevano quello comprato. E va ben! Allora
vengo di qua. Era del Settantaquattro. Facevo ancora il consulente
esterno per il cantiere. Allora vengo di una giornata di vento di
tramontana, io e uno di là, Nicolini. Cerchiamo erba per i conigli.
Qui c’era dell’erba molto buona, eh, e lì… Veniamo di qua. Belàn, di
là si moriva, di qua primavera. Allora ho deciso: se volete che
faccio il consulente mi date quel pezzo di monte. E ho lasciato di
là e son venuto di qua.
Dopo aver scoperto che il clima era
diverso.
Qua si sta bene più d’inverno che
d’estate.
Quanto hai impiegato a bonificare?
Proprio a fare tutte le piane [le
terrazze], ci ho impiegato cinque, sei anni. Perché ne facevo una
oggi, una domani… Dovevo pulire, dovevo portar via l’erba, bruciavo.
Io andavo alla buona, sa, bruciavo senza avvisare la forestale. Un
giorno c’era un mucchio di rumenta alta come la baracca, io e
il buonanima di Primo Ulivi. Eravamo in due. Lui diceva: io vado per
erba, poi veniva indietro e diceva: ma non ce n’è, Luigi, di erba.
Perchè non aveva voglia di farla. E ci mettiamo lì a bruciare. Ci
divertivamo a vedere le fiamme che vanno su. Arriva la forestale!
Cosa fate? Puliamo un po’. Non ci han fatto niente perché si vede
che quel maresciallo lì era bravo. Perché qua in mezzo a un bosco,
con quelle fiammate lì prende fuoco. Ma era una mattina bella calma,
di quelle primavere buone. E allora non si può bruciare. Guardi che
lei, se lo prendiamo… E io ho pensato: la roba c’è, qualcosa bisogna
che inventi per levarla. Lì c’è i valloni, no, perché non c’è
pianura, ed io li ho riempiti. Giù roba che buttavo, tutta la
rumenta. Ora, purtroppo, qualche bruciatura la facciamo lo
stesso, con fuochi piccoli. L’elicottero passa alle nove e un
quarto, io alle otto sono qui, alle otto e venti ho finito.
L’elicottero passa e io ho già bell’e finito tutto. Poi non faccio
fumo, la metto bella secca, così brucia subito. Un po’ la porto nei
boschi e un po’ la brucio.
E la baracca quando l’hai fatta?
Del Settantasette.
Venivano a trovarti gli amici?
Uuuh! Di quelle mangiate! I miei
nipoti di domenica, di sabato… C’eravamo diciotto, venti. Avevamo
fatto delle tavole di legno.
Cucinavate qui?
Si portava. Io ci avevo i conigli, si
cuoceva sei o sette conigli. Poi prendevo delle sardine che si
metteva sulla griglia, quella roba lì. Della verdura, frutta… c’era
tutto qua. Una volta è venuto un milanese, una famiglia di milanesi,
marito e moglie e due figli. Vengono su da Milano, amici… Era la
stagione delle fave, i primi d’aprile, il 25 aprile io qua non ho
più niente. Quest’anno ci avevo come minimo cinquanta chili di
piselli, è stato un anno molto favorevole… ho preso delle patate
così. Dipende dalle annate e anche da come si concima il terreno.
Quando sono venuti i milanesi, poi,
che cosa è successo?
Abbiamo fatto una tavolata! Han fatto
dei ripieni, quella roba lì. Ci avevo un pezzo di cipolle verdi, di
qua a lì, e c’erano una cinquantina di piantine… Quel milanese lì,
lo sa?: Luigi vammi a prendere ancora due cipolle… Ha mangiato come
minimo venticinque cipolle. Ho detto: stattene a Milano, non venire
qui. Andavo giù e ne prendevo due… erano già belle, eh! Le prendeva,
levava la prima pelle e le mangiava con solo un po’ d’olio. E pane.
E vino magari.
Vino, eh!
Che vino?
Qualunque qualità andava bene. Quelli
lì prendevano delle bottiglie e io ci dicevo: prendete delle
bottiglie che costano un sacco di soldi, andiamo da Pizzarello, ne
prendiamo tre o quattro bottiglioni e spendiamo tanto come le vostre
bottiglie. Era buono perché era di qua, il nostralino. Non aveva
tanti gradi… Ma poi, una bottiglia che ha dodici, tredici gradi a
cosa serve?
Le è capitato qualche volta, in
tanti anni, di non star bene qua sopra da solo?
Lì, vede quella baracca lì degli
attrezzi? Una sera ho fatto il furbo. Era il sette dicembre
dell’Ottantacinque, di lunedì, c’era un pino che mi dava fastidio,
era ancora verde. Allora la forestale girava e a me quello dava
fastidio in mezzo alla piana. Ci avevo una scala a tredici scalini.
Son salito su e ho detto:… era già l’imbrunire e a dicembre viene
buio presto. Porca miseria, salgo su… le scale oltre all’ultimo
gradino ci hanno anche due spuntoni più alti e allora io per andare
un po’ più su ho messo i piedi su quelli lì e mi tenevo all’albero.
Ho tagliato il cimalino… ho detto: così domani vengo su presto…
Mamma mia, taglio il cimalino su lì… Venendo giù, un ramo mi ha
preso un piede e sono andato giù attaccato al cimalino, in terra.
‘Na patta! Mi son rotto il bacino. Però era composto non proprio
rotto, rottura composta, frattura composta hanno detto. Ero vestito
da lavoro. Mi cambio… un dolore… ma a botta calda si cammina e io
vado… Ci avevo il motorino… Vado là, mi cambio alla svelta e poi non
ce l’ho fatta a fare la salita. Andavo in ginocchio. E lì c’era un
pino, mi sono aggrappato al tronco e mi son messo in piedi, senza
nessuno. La botta l’avevo di qua, con questo piede stavo ancora bene
in piedi. Ho detto: mah! Prendo il motorino e mi seggo sopra. Sono
andato ancora bene. Che poi mia moglie era da mia figlia. Ci
telefono e ci dico: vieni un po’ a casa che mi sono fatto un po’
male. Quando viene… Io ero sporco, mi son messo nel bagno e mi son
lavato un po’ così, avevo zappato e avevo i piedi… Ho detto: mi
portano all’ospedale… Ho preso la macchina della mia vicina che suo
figlio è dottore, Manfredini, che è giovane, avrà quarant’anni. Era
mio vicino di casa. M’ha preso e mi ha portato a Lavagna, al pronto
soccorso. Un giorno all’ospedale e poi m’han mandato a casa: dovevo
star fermo ventisei giorni.
La moglie ed i figli non ti hanno
detto niente?
La moglie me n’ha dette tante che non
ci stavano in casa. La mia casa ci ha una cameretta che corrisponde
diritta con il corridoio e la cucina e la camera era di là. Avevo
male ma mi tenevo il dolore, non mi lamentavo… Io ho gli orari
fissi, all’incirca. Io come ora vado giù alle undici e venti per
essere a casa. Cinque minuti dopo vuol dire che c’è la corriera.
Dal Settantaquattro, tutti i
giorni due volte al giorno, da Sestri con il motorino.
Sì, perché ci avevo la macchina, ma mi
dava fastidio, mi andava più bene il motorino. Il motorino l’ho
lasciato ch’è un anno e mezzo.
Perché era scomodo?
Perché mugugnavano tutti.
Quante ore stai qui?
Il mio orario è questo. Vengo su… ora
sono abbonato alla corriera. La corriera mi lascia lì alla
bocciofila alle sette e mezzo. Mi lascia lì e in un quarto d’ora me
ne vengo su, piano piano. Alle otto son qua, mi cambio e poi
fricceggiu, faccio un lavoretto qua, uno là… come prima c’era da
legare i piselli, da dare la mangiada alle fave, poi… e mi
diverto a fare quei lavori lì. Perché bisogna farli, eh. E poi alle
dieci e mezzo mi cambio e ci ho la corriera alle undici.
E il pomeriggio vieni ancora.
Sì, il pomeriggio prendo una corriera
all’una o a mezzogiorno e quaranta. Mi fermo alla bocciofila, se ci
ho voglia faccio una partita, prendo un cafè, e poi vengo su. Solo
due ore. Poi alle quattro me ne vado. D’inverno, però, non vengo
tutti i giorni. Mi fermo alla bocciofila… Allora c’è discussioni,
stiamo un po’ lì. Io abito a Sestri ma gli amici e i conoscenti ce
l’ho a Riva perché son nato a Riva. Io son nato lì dalla chiesa.
Quando ti stancherai o non potrai
più venire, che fine farà tutto questo?
Se lo riprende il cantiere. Quando io
non ce la faccio più, ce lo dico al cantiere e abbandono il terreno.
Ed i figli o i nipoti?
Non viene nessuno… ce n’ho diciotto
nipoti. Sono cambiati i tempi, stanno più bene. Però. Io ho visto,
quando è la domenica e non vengo su… Vado a fare un giro per vedere
i prezzi che fanno. Nella stagione delle fave e dei piselli, sa cosa
ho visto? Delle fave lunghe così… secche che dentro non avevano
neanche semi, grandi come piselli e non come fave… Quattro euro. I
piselli in tre posti: uno laggiù dalla parrocchia, uno in piazza di
fronte a me e uno più in là, ch’è la più ricca, che ci ha la roba
più bella perché la prende dai contadini e non dai mercati… I
piselli otto euro al chilo. Lo sa che sono sedicimila lire? In
aprile, i primi di maggio.
Della tua roba, hai mai venduto
qualcosa?
No. Quest’anno… A Sestri c’è
un’associazione, Terza Età, i vecchi, e mia moglie va lì e m’ha
detto: vieni anche te, iscriviti. Mi sono iscritto e io sono
iscritto anche qui alla bocciofila… Dove vado mi iscrivo. M’ha
iscritto lì e fanno delle festicciole. M’ha detto: vieni a mangiare.
Sì. E c’era una roba, una roba di mare, sa, pastasciutta coi frutti
di mare, anche buona e costava anche poco, undici, dodici euro, del
vino, frutta, verdura e il limoncino. Quando ci avevo tanti piselli
ho detto a mia moglie: guarda, lassù… ce n’era proprio spalliere che
vedevi solo piselli, un disegno sembrava. Ne ho preso, saranno stati
tre chili e li ho portati giù. Ho detto: portali al centro. Li ha
portati. La domenica dopo hanno fatto una festicciola. M’han detto:
ce n’hai ancora dei piselli. E ce n’avevo. Cinque chili ne ho
portato laggiù. Quando facciamo le festicciole siamo una trentina,
viene anche giù quelli di Riva.
Nessuno ti ha mai dato una mano a
rincalzare le fave, a strapare l’erba? Ti aiutano?
Eeeh!! Dooove? M’aiuutano! Se lo
credeva lei. Vengono qua, ora è già un po’ che non vedo nessuno,
sarà cinque sei mesi… Veniva qua: un po’ di prezzemolo, un po’ di
radicchio, un po’ di rosmarino. Faceva un pacchettino e: ce l’hai un
bicchiere?
In tanti anni quassù a dominare il
mare, hai mai osservato qualcosa di eccezionale?
No. Da qui si osserva qualche cosa un
po’ quando c’è il mare grosso, che fa delle onde proprio così. Ho
visto una volta che c’era il mare grosso, una petroliera è venuta
vicino vicino per ripararsi L’unica volta.
Se tu volessi dire che questo è il
posto ideale per starci, per quale motivo?
Guardi, io sono del parere ch’è un bel
posto. Non ho vizi, salvo qualche bicchiere di vino e mia moglie mi
ha fatto il mio misurino, ma credo che qui ci sto bene perché faccio
quello che voglio. Se non ci ho voglia non lavoro, se ci ho voglia
lavoro e quando viene su qualcheduno di quelli…, e va beh, puoi fare
questo e quello… Mi viene il nervoso e io non lo faccio più. Non lo
faccio. Quello che mi suggerisce un altro non lo faccio. E il lavoro
mi rende, perché se uno e lì… Delle volte viene qualcheduno… Prima
venivano un po’ troppo, eh… Avevo una diecina di peschi così,
prugne, ce n’erano a terra ch’era un tappeto, nessuno ne voleva.
Quelle piante lì erano cariche, proprio c’era un po’ di tutto, ma… E
lì, belàn!, venivano su: devi fare quello lì, questo ce lo lasci… Ci
ho detto: sta’ a sentire, ci andiamo a sedere, qua dove siamo
adesso, beviamo un bicchiere e poi te ne vai. Amici siamo e amici
restiamo. Se stai qui non faccio niente e quello che mi dici tanto
lo faccio o non lo faccio… Ormai saremo alle ultime gocce, eh!
Quando da qui vedi il cantiere, non
ti viene in mente di quando eri giù a lavorare?
Io le mie date del cantiere le so
tutte. Da quando ho lasciato la quinta a scuola, che poi marinavo,
tanto che il maestro prese mia madre… Avevo undici anni e invece di
andare alla scuola andavamo alla spiaggia, ma non così eh, alla
spiaggia c’eravamo in tre, non c’era nessuno, era un deserto. Io son
nato del Quindici, il quattordici gennaio. Dopo ho finito la scuola,
del Ventisei, mia mamma era brava mio padre non tanto, un po'’ più
faceva filare… E lì m’han mandato da Parchi a fare il garzonetto
panettiere, in via Genova, avevo undici anni. Sono stato tre anni. A
quattordici anni, il diciassette aprile del Ventinove, sono entrato
in cantiere. Era venuta la crisi, ci mandavano a casa per quindici
giorni… A quei tempi io ragazzo avevo sette centesimi l’ora. Si
facevano undici ore al giorno. Alla domenica fino a mezzogiorno. Del
Trentasei sono andato a militare.
E t’hanno mandato in Africa.
Sì, nel Trentasei. Nel Trentasei sono
andato in marina. Ero imbarcato sul Duca d’Aosta, una nave grossa,
nuova, e ci ho fatto trentasette mesi. Poi son venuto a casa perché
ho avuto fortuna, nel Trentotto. Poi di nuovo richiamato. Insomma ci
son stato trentasette mesi. Di lì vengo a casa e vengo in cantiere,
perché allora c’era il diritto che uno ch’era militare poi
conservava il posto. Sono uscito del Settantatre. Licenziato! Del
Settantasei ho finito il consulente. Guardi un po’ dal Ventinove al
Settantasei.
Ma hai qualche nostalgia dei tempi
del cantiere?
A quei tempi in cantiere eravamo
troppo sfruttati. Non c’era libertà. Lavoro e basta. Undici ore al
giorno! Uno che ha diciotto, vent’anni, venticinque… Era lavoro,
senza mezzi… Una bicicletta in due per andare a Sestri, uno sul tubo
e l’altro a pedalare.
Riva, 6 giugno
2006
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